Dopo 7 anni di lunga attesa, la battaglia è stata vinta: la docente licenziata a Trento perché si era rifiutata di smentire le voci sulla sua omosessualità verrà risarcita. La suprema corte, inoltre, ha confermato la condanna in appello della scuola.
Il caso scoppiato nel 2014
La vicenda è avvenuta nel 2014 quando la preside della scuola cattolica (nonché madre superiore) ha convocato l'insegnante interessata a contratto scaduto: "Mi ha domandato del mio orientamento sessuale - racconta la donna -perché secondo lei giravano le voci che io avessi una compagna. E voleva che le dicessi se era vero, altrimenti avrebbe avuto difficoltà a rinnovarmi il contratto".
La preside, a seguito di queste dichiarazioni, non si è tirata indietro, confermando quanto accaduto e giustificandolo come un modo per "tutelare l'ambiente scolastico" dato che "il problema esiste; la scuola cattolica ha una sua caratteristica e un insieme di aspetti educativi e orientativi: a noi sembra di doverla difendere a tutti i costi".
A seguito di tutto ciò, l'insegnante ha deciso di rivolgersi ai giudici del lavoro assistita dal proprio avvocato con l'obiettivo di tutelare i propri diritti costituzionali, secondo in quali non è assolutamente lecito essere discriminati sulla base di un presunto orientamento sessuale.
La condanna in appello della scuola del 2017
Nel 2017 la Corte di appello di Trento, ritenendo la condotta della suora estremamente discriminatoria, ha condannato la scuola a un risarcimento di 30mila euro di danni morali e 13.329 euro di danni patrimoniali alla docente, oltre che 10mila euro sia alla Cgil del Trentino, sia all'Associazione Radicale Certi Diritti, anche in nome del carattere ritorsivo e diffamatorio del suo modus operandi.
La conferma della sentenza di appello
Negli ultimi giorni, la Cassazione ha confermato la sentenza in appello condannando l'istituto religioso a pagare altri 9.870 euro di spese legali. "La libertà religiosa non può essere invocata come pretesto per discriminare", ribadisce e sottolinea l'ordinanza emessa dalla Corte di Cassazione Sezione Lavoro, che ha respinto il ricorso dell'istituto; secondo i giudici, infatti esistono "disposizioni, anche costituzionali, a fondamento della libertà di organizzazione dell'Istituto religioso" ma esse non consentono di "legittimare condotte apertamente discriminatorie".